Beato Alfredo Ildefonso Schuster
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2021: Lettera della Trasfigurazione

“Dobbiamo tornare a vivere”: questo slogan, che abbiamo sentito ripetutamente echeggiare nel corso dell’anno, esprime un profondo sentimento comune; tutti noi, infatti, abbiamo provato un respiro di sollievo di fronte ai piccoli o grandi segni della ripresa di questa nuova vita. Il ritorno dei ragazzi a scuola, il rilancio del lavoro in sede, i negozi aperti e le persone sedute nei dehors dei bar ci hanno aiutato ad aprire il cuore alla speranza. Abbiamo assistito anche a degli eccessi, quali le movide notturne troppo turbolente o l’esuberanza sfrenata con cui si è gioito per la vittoria dell’Italia ai campionati europei. Tuttavia, anche in queste reazioni smodate “dovremmo essere in grado di discernere la sete dell’infinito, la nostalgia della libertà e della comunione, la sofferenza di colui che cerca l’assoluto nelle realtà della terra” (Olivier Clément). Sete di infinito, sete di vita perché, come scrive Dionigi l’Aeropagita, “anche colui che desidera la peggiore delle vite in quanto desidera solo vivere e vivere nel modo che gli appare come il migliore, per il suo stesso desiderio, per la sua smania di vivere, per la sua tendenza a vivere, partecipa al bene”. Cerchiamo allora di accogliere e rispettare, anche se con discernimento, la sete di vita che ci circonda, una sete che ci interpella e in cui possiamo cogliere un ben più profondo invito rivolto proprio a noi: l’invito a ritornare a vivere una vita vera, secondo i criteri proposti dal Vangelo. Ecco allora che dal mistero della Trasfigurazione possiamo cogliere alcuni spunti importanti grazie alla contemplazione di Colui che è – e che si definisce come – la vita in pienezza. Sul monte Gesù “fu trasfigurato davanti a loro” scrive il Vangelo di Marco; “trasfigurato” non significa che in quel momento egli divenne “altro”; al contrario, con tale espressione l’evangelista intende riferirsi all’autorivelazione del Figlio, il suo manifestare pienamente se stesso, in special modo la sua interiorità luminosa che traspare non solo dal corpo ma perfino dalle vesti. Quanto i discepoli avevano potuto intuire o forse immaginare della sua persona, ora si evidenzia in tutta la sua pienezza: l’uomo Gesù è il Figlio amato, il Figlio di Colui che, in quanto Padre, dona la vita. Questa segreta – e nello stesso tempo splendente – trasformazione rivela qualcosa di estremamente importante per la nostra esistenza: la vita ha origine nel centro, in quel centro profondo di noi stesse dove spesso non osiamo sostare, perché spaventate dalla solitudine e dal silenzio che accompagnano lo scendere e il dimorare nelle zone più profonde della nostra persona; centro, tuttavia, in cui è presente una sorgente viva, una perla preziosa di cui siamo chiamate a conservare il fulgore. Il mistero della Trasfigurazione è un mistero di silenzio. L’evangelista Marco lo esprime con chiarezza: Gesù conduce i suoi su un “monte alto” e l’altezza è sempre un richiamo alla trascendenza, alla solitudine, perché la fatica per raggiungere la cima permette di evitare la calca e l’affollamento. Egli poi aggiunge: “in disparte, loro soli”, quasi per mettere in evidenza il contesto di isolamento, dove è più facile percepire la presenza del mistero. In tali parole possiamo scorgere un invito rivolto anche a noi: la vita nasce dal di dentro e non si sviluppa nel chiasso, nella confusione, in mezzo alla folla. Il grembo della Vergine Maria, la terra in cui può germogliare il seme, la solitudine silenziosa della montagna: sono tutti simboli di quello spazio interiore in cui anche noi possiamo lasciar crescere e sviluppare la vita. Il mistero della Trasfigurazione ci mette, dunque, in guardia nei confronti della superficialità, da cui possiamo sentirci attratte e verso cui il mondo esterno ci sollecita: la superficialità delle mode, il fascino degli strumenti di comunicazione sempre più sofisticati ci impediscono di custodire e coltivare – proprio come Dio aveva comandato ad Adamo nell’Eden (cf Gen 2,15) – quel giardino interiore dove germoglia la vita, la vita dello spirito, che sola può renderci veramente felici. Essa, però, non è destinata a rimanere nascosta nelle zone più profonde del nostro essere. Come è avvenuto per Gesù, la cui luce interiore ha brillato fino al punto da stupire i discepoli – che pur lo conoscevano intimamente – e da far dire a Pietro parole che potevano sembrare insensate, così deve compiersi anche in noi. Sempre dobbiamo ritornare a questo centro in cui già lo Spirito ha plasmato in noi il volto del figlio, per comprendere – attraverso un profondo dialogo interiore – dove e come orientare la nostra esistenza. Solo lì, nel nostro cuore profondo, possiamo trovare la risposta alla domanda fondamentale, quella da porsi in ogni istante: “Che cosa significa, che cosa comporta per me “vivere” in questo momento?”. Il mistero della Trasfigurazione, con la sua luminosità e il suo silenzioso appartarsi, non denota soltanto che la vita ha origine nel centro e che da lì si dispiega per informare tutta la nostra esistenza; esso ci aiuta anche a comprendere come “vivere” significa ricomporre l’unità dentro di noi e con il mondo esterno. Sull’alto monte, infatti, i discepoli hanno contemplato l’estrema armonia che traspare dalla persona di Gesù. In lui la luce non incontra ostacoli. In noi, invece, difese e barriere impediscono alla nostra interiorità trasparente di manifestarsi e di pervadere e fecondare l’agire, i sentimenti, i pensieri, gli atteggiamenti che assumiamo verso noi stessi e nei confronti degli altri e del mondo. Nel corso della creazione Dio trasforma, separando e integrando tutta la realtà, il caos iniziale in un cosmo ordinato di cui ammira la bellezza; nello stesso modo la persona di Gesù ci appare in tutto il suo splendore come un corpo di luce in cui tutti gli elementi della sua umanità – fisico, spirituale e psichico – si accordano per formare un’unità armoniosa ed equilibrata. Gesù non solo ricompone in se stesso quell’unificazione interiore che l’uomo con il peccato aveva distrutto, ma ricrea la comunione anche con ciò che gli è esterno, innanzitutto con gli altri. Sull’alto monte egli non è da solo, isolato rispetto ai suoi; al contrario, la tradizione – soprattutto in occidente – ha sempre interpretato questo mistero come un suo gesto d’amore nei confronti dei discepoli, un modo per prepararli ad affrontare il dramma della sua passione presentando loro il suo volto trasfigurato, perché potesse essere ricordato come segno di speranza e fiducia nel momento in cui lo avrebbero visto sfigurato. La presenza sul monte di Elia, il profeta per eccellenza, e di Mosè, il condottiero e legislatore, ci mostra Gesù anche come colui in cui si raccoglie e si unifica tutta la storia della salvezza, come la sintesi e il centro verso cui convergono il tempo e l’agire degli uomini. Così lo presenta anche il libro dell’Apocalisse al capitolo 5: “Vidi nella mano destra di Colui che era assiso sul trono un libro a forma di rotolo, scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli. Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce: «Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?». Ma nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo. Io piangevo molto perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo. Uno dei vegliardi mi disse: «Non piangere più; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli»”. Solo il RisortoTrasfigurato è colui che può srotolare il libro della storia e comprenderne il senso; in lui, infatti, si riassume tutto il disegno di Dio, il suo progetto di alleanza con gli uomini. La sua luce interiore, che unifica e armonizza il cosmo – della cui perfezione futura il suo corpo è anticipazione – e la storia, si espande anche su tutto l’operato dell’uomo. Non solo la natura, infatti, ma anche la cultura possono essere coinvolte in questo movimento di illuminazione, di spiritualizzazione: se il corpo di Gesù è trasfigurato da un soggetto non menzionato che ci richiama però l’agire del Padre, anche le sue vesti, secondo le parole dell’evangelista Marco, diventano “splendenti, bianchissime; nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”. Con un’immagine molto concreta il discepolo ci aiuta a comprendere che tutta l’opera dell’uomo e, di conseguenza, ogni nostra attività, ogni nostro lavoro, può contenere e lasciar trasparire un mistero di trascendenza, proprio come dagli abiti di Gesù trapela la luminosità del suo mondo interiore. Come sarebbe importante e bello se anche noi, che con la preghiera, la vita fraterna e il lavoro, intessiamo le nostre vite con quelle dei fratelli, potessimo offrire fili luminosi per rendere più radiosa e splendente la loro esistenza! Sentiamo questo invito come rivolto a noi, che abbiamo ricevuto la veste bianca al momento del battesimo e ora siamo chiamate a rivestirci dell’uomo nuovo (Ef 4,24); permettiamo allo Spirito di realizzare in noi tale trasformazione, imparando a “vivere dentro”, negli spazi della nostra interiorità, rinunciando alle illusioni e alle fascinazioni proposte da una società in cui prevalgono le banalità e il superficiale; cerchiamo di immergerci nel nostro “più profondo centro” – come diceva santa Teresa d’Avila – nell’intima comunione con il Signore e nella costante ricerca di una sempre più intensa unificazione dentro di noi, con gli altri e con la creazione.